ITFS139

III settimana di Quaresima – Domenica

La chiamata di Mosè

Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!» ….E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». ….Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele.  Es 3,1-8a

Mosè ha vissuto centoventi anni. I primi quaranta li ha trascorsi alla corte del faraone, che lo considerava come un figlio. Egli però conosceva le sue origini ebraiche e sentiva nel cuore il mandato a risollevare il popolo dalla schiavitù nella quale era ridotto in Egitto. Un giorno, essendo andato a far visita ai suoi fratelli israeliti, vide un egiziano colpire un ebreo ed egli lo uccise. In seguito a quell’atto inconsulto, Mosè dovette fuggire dall’Egitto e si rifugiò nella terra di Madian, nel Sinai, dove trovò ospitalità presso Ietro, un pastore del quale sposò una delle sette figlie, Zippora, che gli diede un erede. In quella terra Mosè trascorse quarant’anni “pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian”. Egli, che in gioventù era vissuto alla corte del faraone ed aveva sognato di essere il liberatore del suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto, si era ridotto a fare il pastore, oltretutto di un gregge non suo. Così stavano le cose quando – come racconta il brano di oggi – Mosè “condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava”. Di fronte a quell’avvenimento eccezionale, egli avrebbe potuto dargli un’occhiata e continuare a pascolare il gregge, comportandosi come l’asino della poesia “Davanti S. Guido” di Giosuè Carducci, “un asin bigio, rosicchiando un cardo rosso e turchino, non si scomodò: tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo e a brucar serio e lento seguitò”. 

In Mosè, però, nonostante che in gioventù si fosse lasciato sfuggire il futuro di gloria che la vita gli aveva offerto e si fosse ridotto ad un modo di vivere abitudinario e senza entusiasmi, non si era spenta quella curiosità tipica di una persona che dall’esistenza attende ancora qualcosa. Così “pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?»”. È da questo suo attaccamento alla vita ed alla speranza in giorni migliori, nonostante gli insuccessi, nasce la vocazione di Mosè: “Il Signore vide che si era avvicinato per guardare”. Comincia qui la sua grande avventura di liberatore di Israele e la marcia nel deserto dal Sinai, che durerà altri quarant’anni, fino all’arrivo nella Terra Promessa.

La storia di Mosè dona ad ogni uomo, qualunque sia la sua condizione e lo stato nel quale si trova, un grande insegnamento: non si deve mai perdere la speranza, perché il Signore e la vita possono sempre avere in serbo qualcosa di bello e d’importante da fare. E ci insegna anche una verità che diventerà regola nel Vangelo: il Signore difficilmente chiama una persona quando è al colmo del suo successo umano. Egli predilige chiamare chi si trova in difficoltà, perché sia chiaro che tutto è opera sua.

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